L’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, dispone che, in caso di revoca del licenziamento, purché effettuata entro 15 giorni dalla comunicazione della sua impugnazione, il rapporto è ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non si applicano le sanzioni ivi previste. Identica previsione è contenuta nell’art. 5 del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (tutele crescenti).
Perché – Un licenziamento va revocato quando il datore, o il suo consulente, si accorgono di aver sbagliato a comminarlo, per un’errata valutazione dei fatti, perché si trattava di una lavoratrice in gravidanza e così via: revocare vuol dire – ferma l’erogazione della retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca – non dover pagare alcuna (salata) indennità.
Come – Su questo punto la giurisprudenza è concorde: la revoca del licenziamento non richiede la forma scritta, in quanto essa non è prescritta da alcuna norma (Cass. 7 febbraio 2019, n. 3647); ne deriva che la revoca può essere comunicata anche via telefono (Cass. 18 novembre 1997, n. 11467). Certo è che il ricorso alla forma scritta è utile ai fini della prova.
Quando – La revoca va effettuata entro 15 giorni dalla comunicazione al datore dell’avvenuta impugnazione del recesso (il lavoratore ha 60 giorni per impugnare). In giurisprudenza si ritiene però che la revoca possa essere decisa dal datore anche se il lavoratore non ha ancora impugnato il licenziamento e, ovviamente, anche se questi non desidera riprendere il servizio (Trib. Genova 27 gennaio 2016).
In definitiva, si tratta di uno strumento, a disposizione del datore, utile a evitare guai peggiori.
A cura di Alberto Bosco – Esperto di diritto del lavoro, Giuslavorista, Pubblicista de Il Sole24Ore. Consulente aziendale e formatore
Fonte: Sistemiamo l’Italia