Il concetto di continuità aziendalein un’ottica quali-quantitativa

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Tre sono i concetti chiave intorno ai quali ruota il sistema di regole introdotto dal nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. n° 14/2019).

Prendendo a paradigma l’obiettivo della riforma, ovvero la rilevazione e gestione tempestiva dello stato di difficoltà, il legislatore ha individuato tre diverse fasi riconducili ai concetti di:

  • perdita della continuità aziendale;
  • crisi;
  • insolvenza.

Sebbene differenti per quel che concerne il loro intrinseco significato e gli effetti del loro manifestarsi in capo all’azienda, indiscutibili sono i punti di contatto se consideriamo il rapporto di causa-effetto che potrebbe innescarsi e la visione secondo un approccio prospettico dello “stato di salute” dell’impresa.

La perdita di continuità aziendale può, infatti, rappresentare il preludio della crisi, così come l’insolvenza scaturisce sicuramente da uno stato di crisi. A determinare il passaggio da uno “stato di benessere” ad uno “stato di difficoltà” sono l’orizzonte temporale di breve, medio e lungo periodo e gli elementi distintivi dell’impresa, traducibili in indicatori di natura qualitativa e quantitativa, sui quali si fondano i giudizi di sussistenza di tali circostanze.

La continuità aziendale, intesa come la capacità di operare quale entità in funzionamento per un arco temporale di almeno dodici mesi, è valutata sulla scorta di informazioni di contenuto gestionale.

Nel caso della crisi, gli strumenti di valutazione sono in via esclusiva espressione di situazioni di squilibrio finanziario riconducibili ad un arco temporale di sei mesi.

L’insolvenza è rappresentativa invece dell’incapacità permanente e irreversibile dell’impresa di far fronte alle proprie obbligazioni.

In via preliminare emerge, quindi, la connotazione qualitativa del concetto di continuità aziendale da riferirsi all’obbligo da parte delle imprese di dotarsi di assetti organizzativi tesi all’efficientamento delle attività direzionali e operative.

È bene ricordare, infatti, che l’art.3 comma 2 del codice della crisi recepisce le modiche apportate all’art.2086 comma 2 del codice civile in cui viene imposto agli imprenditori collettivi di “istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita di continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”.

Sebbene quindi il concetto di continuità aziendale sia sinonimo di organizzazione basata su un complesso di processi e procedure integrate e su assetti amministrativi volti ad una corretta traduzione contabile dei fatti di gestione, la perdita di continuità aziendale rimanda ad un primo scenario di difficoltà rilevabile mediante l’attività di monitoraggio preventiva a cui sono chiamati imprenditori, ovvero sindaci e revisori servendosi di strumenti di controllo di natura economico-finanziaria in grado di rappresentare i diversi stadi di difficoltà.  

Ed ecco che l’aspetto qualitativo finisce per fondersi con quello quantitativo.

L’accertamento da parte del management della perdita di continuità aziendale, non presuppone in automatico il ricorso a uno degli strumenti previsti dal codice della crisi, piuttosto si invita l’imprenditore all’assunzione di un atteggiamento proattivo orientato alla gestione di tali situazioni attraverso azioni di contrasto “ordinarie” (aumenti di capitale, assunzione di nuovi finanziamenti, conversione del debito in azioni, ecc.).  È altrettanto vero che la rilevazione di una perdita di continuità, scaturisce dal mancato superamento degli indici (quantitativi) previsti dall’art.13 del già menzionato codice della crisi e dell’insolvenza, intesi quale parametro affinché si possa configurare uno stato di crisi.

Tale commistione quali-quantitativa diventa una variabile imprescindibile se si analizza il concetto di continuità aziendale anche dal punto di vista contabile.

A livello normativo nazionale, il codice civile, all’art. 2423-bis, comma primo, e in sua attuazione il principio contabile OIC 11 individuano nella continuità aziendale un vero e proprio principio di redazione di bilancio stabilendo che “la valutazione delle voci deve essere fatta secondo prudenza e nella prospettiva della continuazione dell’attività, […]”, ovvero, procedendo alla contabilizzazione delle poste di bilancio, è importante comprendere se l’impresa sia in grado di esprimere, attraverso  le proprie attività e le proprie passività, la forza economica/reddituale durante il normale svolgimento dell’esercizio d’impresa.

Soffermandosi sui postulati del bilancio d’esercizio, l’OIC 11 introduce la prospettiva della continuità aziendale definendola come “la capacità dell’azienda di continuare a costituire un complesso economico funzionante destinato alla produzione di reddito per un prevedibile arco temporale futuro, relativo a un periodo di almeno dodici mesi dalla data di riferimento del bilancio”.

A livello internazionale è lo IAS 1, ad illustrare il concetto di continuità aziendale, prevedendo che nella fase stessa di preparazione del bilancio, gli amministratori accertino la capacità dell’impresa di operare come entità di funzionamento analizzando tutte le informazioni disponibili per il futuro per un periodo limitato non inferiore a dodici mesi dalla data di chiusura del bilancio. Eventuali segnali di discontinuità aziendale che potrebbero previsionalmente alterare la continuità dovranno infatti essere trascritti nelle note di bilancio.

La continuità (going concern) è stata analizzata anche dal principio di revisione (ISA) n.570 in cui si ribadisce l’importanza di valutare il presupposto della continuità aziendale attraverso l’analisi di informazioni scaturenti da diverse fonti qualitative e quantitative, ovvero:

  • indicatori finanziari, quali situazioni di deficit patrimoniale o capitale circolante netto negativo, cash flow negativo, incapacità di saldare i debiti alla scadenza, ecc.;
  • indicatori gestionali, ovvero perdita di mercati fondamentali, difficoltà nel mantenere il normale flusso di approvvigionamento, ecc.;
  • altri indicatori, quali l’esistenza di contenziosi legali e fiscali a cui seguirebbero obblighi di risarcimento.

Per concludere, la prevenzione della crisi passa per una valutazione quali-quantitativa idonea a rilevare la natura intrinseca degli stati di difficoltà rilevati al fine della corretta individuazione delle azioni correttive applicabili al caso di specie, siano essi piani di risanamento autonomi e discrezionali, ovvero strumenti di regolazione della crisi.

A cura di Nicola Lucido – Dottore Commercialista in Pescara, Dottore di ricerca in Economia Aziendale, Ricercatore area aziendale Fondazione Nazionale dei Commercialisti.


Fonte: Sistemiamo l’Italia

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